Tradizioni e folklore
La zona tra l’Adige ed il Garda, e quindi anche il territorio di Ferrara di Monte Baldo, conserva ancora nella memoria delle persone adulte ed anziane, il ricordo di tradizioni, usanze e modi di vita del passato. Aspetti tradizionali che purtroppo vanno scomparendo sempre più sotto l’incalzare di un veloce modernismo che distrugge irreversibilmente anche quella cultura montanara e contadina frutto di generazioni di montanari, tramandata oralmente di padre in figlio, e composta di tradizioni religiose, di riti ed usanze, di proverbi e detti, ma anche di utensili ed attrezzi artigianali costruiti in proprio, di tecniche agricole colturali e di allevamento, di arte popolare.
Una cultura che si identificava con un modo di vivere ricco di valori semplici ma dal profondo significato umano e socia e, che trovavano fondamento nel radicato senso religioso della gente e che purtroppo vanno inesorabilmente scomparendo, come il senso della famiglia, i valori religiosi, il gusto e la gioia delle cose semplici il senso del sacrificio e dell’impegno e così via. Le tradizioni popolari di Ferrara di Monte Baldo, in gran parte non hanno un’origine storica ben definita e documentabile, ma sono nate con l’uomo e sono quindi il risultato di vari fattori tra cui la storia, l’ambiente particolare, i diversi modi di vita nel corso dei secoli, la mentalità e la cultura montanara, oltre a risentire degli influssi esterni.
Prendiarnto ora in considerazione brevemente, tutte quelle usanze e tradizioni folcloristiche, nonché i proverbi ed i modi di dire legati ai vari giorni e periodi dell’anno. Ogni avvenimento annuale era infatti segnato da azioni che si dovevano compiere e da cose che invece non si dovevano fare, ed alcune di queste usanze non sono ancora completamente scomparse, restando come testimonianza unica di un modo di vita del passato e di una cultura ed identità baldense da non perdere.
Gennaio
L’anno del montanaro di Ferrara di Monte Baldo, iniziava alla mezzanotte del 31 dicembre e veniva salutato da colpi di fucile sparati in’aria che avevano un significato propiziatorio La mattina del primo dell’anno si traevano auspici su come sarebbe stata l’annata nuova, dalla prima persona che si incontrava per strada: un uomo o un pobbo portava fortuna; una donna invece, sfortuna, il medico er annunciatore di malattie ed il prete foriero di lutti. Anche dal gettare gli zoccoli, un cesto o le scarpe lalla scala si tracvano pronostici: se infatti cadevano diritti le cose sarebbero andate bene durante anno, se invece si rovesciavano, sarebbero andate “storte”. Il 2 veniva poi San Bovo protettore dei bovini (per tradizione quella notte non bisognava andare in stalla perché gli animali parlavano tra loro e chi li avesse sentiti, sarebbe morto). La sera dell’Epifania, il 6 gennaio, si accendevano i “brujei” (grossi falò — di sterpi e spini), nelle contrade e sui dossi attorno a Ferrara. Il “brujel” per i montanari e contadini aveva Il significato di illuminare ed indicare la strada alla Sacra Famiglia nella sua fuga in Egitto, mentre le braci del falò dovevano servire alla Madonna per asciugare i pannolini del Banibinello. In realtà queste motivazioni sono state fornite dalla tradizione cattolica, in quanto il “brujel” è un rito la cut origine è pagana e si perde nella notte dei tempi (forse precursori sono alcuni riti egiziani e medio orientali con significato propiziatorio e purificatorio, che venivano celebrati nella festa orientale dell’Epifania e su cui poi si inserì la chiesa cattolica che da riti pagani profondamente radicati nella popolazione, volle farne riti con uno sfondo cristiano).
Nella settimana precedente la festa, tra i giovani delle varie contrade vi era una sorta di gara nel raccogliere la maggior quantità di sterpi e spini per tar più alta la catasta di legna e per far durare più a lungo il “brujel”. La sera dell’Epifania gli abitanti delle contrade si raccoglievano attorno ai fuochi a cantare e bere in allegria.
Il 17 gennaio ricorre la festa di Sant’Antonio Abate, protettore delle bestie, delle stalle e dell’allevamento. In tale giorno venivano portati gli animali domestici, ma soprattutto bovini ed ovini a far benedire nella piazza della chiesa. Inoltre si faceva benedire anche il sale destinato agli animali, che poi veniva loro somministrato come protezione contro le malattie e le epidemie.
In tempi più recenti al posto degli animali si usavano benedire le attrezzature agricole come trattori, autocarri ed auto. Racconta un proverbio che: “se Sant’Antonio non trova ghiaccio, lo fa: se invece c’è, lo disfa”. Verso la fine di gennaio, il 25, scade San Paolo; in tale notte considerata divinatoria per la meteorologia, con il sistema degli spicchi di cipolla salati, si conosce l’umidità dell’anno: si fanno dodici spicchi, corrispondenti ai mesi, e a seconda del maggior o minor assorbimento del sale di di ognuno, si prevede se saranno mesi piovosi od asciutti. Un proverbio legato a questo a notte dice: ” De le calende gh’è scuro”, (non mi curo delle predizioni se è la notte chiara, con luna).
Febbraio
Il 2 febbraio era la “Ceriola”, cioè la Candelora, festa della Purificazione e della Presentazione al Tempio di Gesù, in cui si facevano benedire le candele che poi venivano conservate ed accese solo se qualcuno era gravemente ammalato oppure per scongiurare la grandine all’avvicinarsi di minacciosi temporali estivi. E a partire da questo giorno, spesso il freddo invernale cominciava ad attenuarsi, come afferma il proverbio: A la ceriola de l’inverno sen fora”. Il giorno dopo, San Biagio, protettore della gola, dopo la messa, chi si faceva benedire la gola con due candele incrociate, restava immune dai mali di gola per tutto l’anno, ed ancora oggi è questa una tradizione abbastanza osservata come quella della ceriola. In questo periodo esplodeva il carnevale, e negli ultimi tre giorni, ragazzi e bambini mascherati andavano per le contrade alla questua di cibarie e regali. Era il tempo in cui si mangiavano, e si mangiano, le “sossole”, una sorta di frittelle fatte in casa, mentre l’ultimo venerdì di carnevale si gustano gli gnocchi, piatto tipico obbligatorio del venerdì “gnocolar” veronese.
Il primo giorno di Quaresima, Mercoledì delle Ceneri, vi è il rituale religioso della benedizione ed imposizione delle ceneri mentre si prescrive il digiuno e l’astinenza dalle carni (così come per ogni venerdì in memoria della Passione). Lasciato ormai, “fevrar, fevrarét, curt è maledét”, si entra con “Oscar Marzo”.
Marzo
“Osar Marzo è un rito di primavera che serviva a propiziare dopo il sonno invernale della natura ed il rallentamento biologico delle attività, la rinascita primaverile e la fertilità della terra e del genere umano. Inno alla giovinezza, “Osar Marzo” era soprattutto una burla per deridere gli scapoli e le zitelle delle varie contrade.
La manifestazione si articolava in questo modo: la sera dell’ultimo di
febbraio, due gruppi di giovani delle contrade, arniati dei caratteristici “tortòri” (imbuti metallici), annunciavano l’arrivo del mese di marzo, preavviso di primavera, mettendosi sui dossi attorno al paese. I due gruppi “maritavano” tutte le ragazze del paese recitando un apposite formulario. Un gruppo inizia il rituale “osando” dentro il “tortòr” la seguente frase: “Stemo par intrar en marzo su questa tèra par maridar ‘na bèla putèla”. Sul dosso di fronte un altro gruppo replica: “Ci élaa, ci no élaaa?”. A questa donianda il primo gruppo risponde: “Tel dirò doman de sera”; quindi fa seguire un elenco di nomi di scapoli e zitelle del paese. La sera del primo marzo con la stessa disposizione dei gruppi come la precedente, un gruppo inizia con: “Semo entrè in marzo su sta tèra, par maridar ‘na bèla putèla”, l’altro domanda: “Ci élaa, ci no élaa?”, ed il primo risponde: “L’è la Rosina Putaaa” o altro soprannome di zitella del paese. Il secondo gruppo chiede allora: “Ci ghe déntiii?”. Ed il primo gruppo risponde: “El Checco Fasòl”, o altro soprannome di scapolo, oppure un nome di annmale o di un pozzo o di una fontana. A questo punto, con gran strepito tutti e due i gruppi gridano: “Déngheloo, déngheloo, dénghelooo”. Nell’abbinamento dei due sposi per burla, si deve scegliere una ragazza giovane con un vecchio scapolo 0 vedovo, od un ragazzo con una vecchia zitella o vedova.
A metà quaresima si usava anche“brusàr la vècia o la stria” cioè bruciare un pupazzo su di un falò in piazza.
Aprile
Nel piovoso mese di aprile, ‘Avril, avrilet, ogni dì en gossét”, iniziava la stagione dei bachi da seta (il 12, festa di San Zeno), mentre scade di solito la domenica delle Palme in cui si portavano in chiesa a benedire le “olière”, rametti d’olivo che poi venivano conservati e bruciati in uno scaldino sull’aria con funzione protettiva contro la grandine, all’avvicinarsi di minacciosi temporali. Un proverbio legato a questa domenica dice: “Se piòi su l’olièla, no piòi su la brassadéla” (‘se piove la domenica delle Palme, non piove a Pasqua”), oppure il contrario. Durante la Settimana Santa, nelle sere dal mercoledì al venerdì si cantavano in chiesa i “mattutini”, versetti presi dal Canto delle Lamentazioni di Geremia profeta, conclusi dal crepitante suono e fracasso delle “racole” (strumenti costituiti da un perno con ruota dentata che batte sulla linguetta di un telaio cilindrico). Si cantavano anche i Misteri della Passione, in chiesa o all’aperto (in due gruppi che si rispondevano), mentre il Venerdì Santo vi era una grande processione.
Tradizioni pasquali erano quelle di coprire le immagini e gli specchi con drappi in segno di lutto, di pulire la catena del camino da parte di bambini che la trascinavano sulle strade e mulattiere selciate, di are le pulizie a fondo della casa, di imbiancare la cucina e di lucidare i recipienti di rame.
Al canto del Gloria della Messa serale del Sabato Santo “i desligàa le campane” in segno di festa e di gioia, dopo che erano restate mute dal Giovedì Santo, mentre la gente si bagnava gli occhi con acqua in modo da renderli immuni da malattie. A Pasqua era tradizione per le massaie preparare l’agnello, la “bressadèla”, un gustoso dolce fatto a ciambella, e le uova sode che venivano colorate e dipinte facendole bollire nell’acqua in cui si erano sciolte delle terre coloranti. Il 23 aprile, San Giorgio, era l’inizio della transumanza ovina con le greggi che dalle pianure salivano ai pascoli più alti del Baldo e nella zona trentina.
Una tradizione pastorale in questi giorni era quella di Palilia, quando si ornavano gli ovili e si faceva all’interno un fuoco in cui si bruciava dello zolfo, con resina, rosmarino e timo. Poi, pastore e pecore dovevano attraversare il fuoco in modo da purificarsi.
A San Marco, il 25 aprile, iniziava l’allevamento dei bachi da seta. In questo periodo si tenevano anche le Rogazioni, processioni primaverili per la benedizione di campi, contrade e raccolti.
Agli incroci delle strade ed all’uscita dalle contrade, gli abitanti allestivano dei piccoli altari ponendovi in fianco dei cesti di uova o altre offerte in natura per la chiesa. La processione guidata dal prete con il seguito di chierichetti e fedeli che recitavano le litanie, si fermava ad ogni altare o capitello ed il sacerdote benediva i campi, le persone, le cose e gli animali, augurando un consistente raccolto, mentre il sacrestano raccoglieva le offerte
Maggio Giugno
Maggio è il mese di devozione mariana e la tradizione, ancora perpetua oggi, prevede la recita serale del rosario davanti ai capitelli, con il loro addobbo, e la “chiusa” finale del mese. Maggio è anche il mese del “cargàr montagna” cioè dell’inizio dell’alpeggio in malga, che avveniva a seconda dell’avanzamento stagionale. Giorno di prodigi era considerato il 24 giugno, San Giovanni. In quella notte vi era la credenza che chi si rotolava nudo nella rugiada venisse immunizzato per tutto l’anno dai mali contagiosi. Inoltre le donne dovevano immergere nella rugiada tutti gli indumenti di lana per preservarli dalle tarme.
In questo giorno bisognava cogliere
la camomilla e la malva perché conservassero il massimo delle loro ualità medicamentose, così come le noci per fare il nocino. Ancora si credeva che staccando un geranio (anelò) ed appendendolo sopra la porta d’ingresso, questo restasse vivo per molto tempo.
Altro giorno ricco di prodigi era il 29 giugno, San Pietro.
Un’usanza voleva che la sera della vigilia venisse lasciata all’aperto della chiara d’uovo. Il giorno di San Pietro si vede nella bottiglia la barca del Santo con le vele spiegate, ma a patto che durante la notti vi sia stata la luna. Se “San Piero el va en barca” era di buon auspicio per i mesi futuri. Inoltre durante il giorno vi è pericolo di temporali scatenati dalla madre del santo. una vecchia avara e cattiva.
Luglio Agosto Settembre
Nei mesi di luglio ed agosto i contadini e i montanari erano impegnati nella mietitura e nella battitura dei cereali, nella fienagione, nella raccolta delle patate e della frutta, oltre che nell’alpeggio. Alcune festività interrompevano i lavori agricoli e pastorali, come quelle della Vergine del Carmelo. La sagra che richiamava pubblico anche dai paesi limitrofi era quella di Santa Caterina d’Alessandria, patrona di Ferrara che si teneva la seconda domenica di luglio, La sagra vedeva anche una fiera del bestiame ed era ricca di “banchetti”. Una festività particolare è quella della Madonna Addolorata che si tiene al Santuario della Corona il 25 settembre (anche la festa dell’ Assunta il 15 agosto). Il 29 settembre, San Michele, era la data tradizionale della fine dell’alpeggio o “descargàr montagna”.
Ottobre Novembre
L’11 novembre, giorno di San Martino, coincideva con l’inizio dell’inverno. Era questo il giorno del “far San Martin”, in cui si traslocava perché terminavano i contratti di affitto e ne iniziavano altri. Il 25 novembre cade Santa Caterina d’Alessandria, occasione di festa in quanto patrona del paese, anche se la festa è stata poi spostata anche nel mese di luglio.
Dicembre
L’8 dicembre vi è la solennità della Immacolata al Santuario della Corona. Il mese di dicembre era atteso soprattutto dai bambini per la festa di Santa Lucia che scade il 13.
La tradizione vuole che la Santa porti 1 doni ai piccoli, ma il rituale della consegna dei doni con la Santa vestita con veli bianchi, e con il castaldo intabarrato che conduce il “musso e caréto”, sta ormai scomparendo. Pure la consegna di un piatto di semola all’asinello che porta i doni e di un piatto di minestra ed un bicchiere di vino al castaldo, è un’usanza che sta lentamente morendo. In Questo iom si cantava la nota filastrocca. “Santa Lussia la vien de note con le scarpe tute rote, col capel a la romana, Santa Lussia l’è me mama”, rivelatrice dell’origine effettiva dei doni.
Vi era sempre in questa ricorrenza, anche un proverbio collegato all’allungamento del giorno, che dice: “A Santa Lussia, na ponta de ucia a Nadal en passo de gal, a l’Epifania en passo de stria, a Sant’Antonio en passo del demonio” (A Santa Lucia la luce del giorno cresce della punta di un ago, a Natale del passo di un gallo, all’Epifania del passo di una strega, a Sant’Antonio, del passo di un demonio).
È questo un proverbio la cui origine risale al XV-XVI sec. prima della riforma gregoriana del. calendario (avvenuta nel 1582), quando il solstizio d’inverno scadeva l’11 o 12 dicembre e non l’attuale 22 dicembre. Dopo la riforma, anche se errato, il proverbio è rimasto nella tradizione popolare durante il periodo natalizio vi è la tradizione della “Stella” in cui gruppi di giovani e ragazzi vanno di casa in casa recando con loro una stella di cartone illuminata da una candela e fatta in modo che possa girare, e cantano canzoni natalizie di questua, domandano cibarie e vari doni. A Natale, oltre al presepe ed alla “soca de Nadal”, un grosso tronco che doveva ardere lentamente sul focolare per tutta la notte, era tradizione un ricco pranzo familiare in cui veniva servito il tacchino e si gustava il tipico dolce “Nadalin” fatto con la farina, uova e zucchero, a forma di stella a cinque punte smussate, e cosparso di nocciole ed anche pinoli. I giorni natalizi erano anche occasione per ‘far su el porsel” (uccidere il maiale) producendo salami, “pansete” e “codeghini” mentre ogni parte dell’animale veniva utilizzata. Nel periodo invernale si svolgeva poi il “filò”.
Non era altro che un raduno serale delle persone che abitavano una contrada, che si incontravano in una stalla per giocare a carte o a mora e per passare un po’ di tempo al caldo, raccontandosi favole e storie. Così mentre gli uomini erano intenti a giocare, le donne sferruzzavano con gli uncinetti e lavoravano a maglia sfruttando il calore animale della stalla in un’epoca in cui non esistevano né il riscaldamento né la televisione.
Questi aspetti della cultura contadina, andrebbero conservati e valorizzati come testimonianza di una civiltà e di un passato che ha ancora molte cose da insegnarci, così come tutta la cultura materiale con i numerosi attrezzi agricoli o gli oggetti e mobili delle abitazioni. Un modo di vita, che nonostante la fatica, era sereno, non alienante, e legato a ritmi temporali naturali, e soprattutto connesso profondamente con la terra e con l’ambiente ed il territorio locale, da cui riceveva il sostentamento strettamente
necessario.
Storie e leggende
El Sàss
La leggenda del pastore Nago e della fanciulla Novezzina
I cavài de Valfréda
Solo una visita tradizionale: quella del Frate Camaldolese della Rocca di Garda che giungeva lassù alla “quéstua de na pònta de botér e de na formaiéla”. Ma un anno il povero frate si trovò di fronte tre mandriani (padre, figlio e zio) forestieri, completamente diversi dai soliti degli anni passati. Rozzi, arroganti, senza alcuna religione e del tutto ignari di quanto avveniva da decenni. Costoro, visto lo strano personaggio, bianco vestito e con tanto di bisaccia, lo scambiarono per uno scansafatiche, per uno scroccone… e alla sua umile richiesta della solita offerta per il “convento” gli risero in faccia e lo trattarono in malo modo. Il padre, guardandolo bieco, disse in schietto veronese: «Fiòl d’un can de Michelàsso, va via, se no te màsso!». Suo fratello, buona lana anche lui, prese un randello e lo minacciò: «Frate della malòra – sparissi da chì – Se te tòrne ‘ncòra – te ònzo mi!». Il figlio, per non essere da meno, pronunciò una parolaccia, prese dal fuoco un tizzone e fece fuggire il malcapitato a gambe levate. Il fraticello, tutto mortificato, continuò il suo cammino e si diresse altrove sperando in un’accoglienza migliore. Intanto si era fatto mezzogiorno e due cavalli che pascolavano nella malga, spinti dalla sete, si avvicinarono alla “pòssa”. Entrarono in essa fino nel mezzo… ma non poterono né chinarsi per bere, né uscir più fuori da essa! I tre malghesi vista l’insolita scena, accorsero per porgere aiuto… li incitarono con la voce
e con delle bastonate… Legarono loro al collo delle lunghe funi e… tirarono… tirarono! Ma quei cavalli sembravano diventati di sasso e non vi fu modo di smuoverli. Neppure attaccando un paio di mucche, abituate a tirare il pesante aratro. Quei tre meschini si spaventarono e, nella loro ignoranza, pensarono di aver ricevuto una “fattura”, un “sortilegio”, una maledizione del frate. E… corsero ai ripari! Il padre chiese al figlio un grosso “pane di burro” e disse: «Corri dietro al frate e chiedi il suo perdono! Porgi le nostre scuse e digli che venga pure a trovarci quando vuole… quando si trova a passare da queste parti…». Il giovane prese il burro e via di corsa! Raggiunse il frate dopo Ime, gli si gettò ai piedi e lo invocò: «Padre, perdona il nostro comportamento! Liberaci dalla maledizione! Abbiamo due cavalli in mezzo alla “pòssa” e non possono bere né uscir fuori. Per favore, accetta questa nostra offerta e vieni in nostro aiuto!». Il frate rispose: «Alzati figliolo! Non aver paura! Non c’è nessun castigo, nessuna maledizione! Va in pace! Ia pregherò per te e per i tuoi cari!», Il ragazzo prese la via del ritorno e arrivò alla malga. I cavalli, come se nulla fosse accaduto, col solito brio erano usciti dalla “pòssa” dissetati e tranquillamente stavano brucando l’erba.